giovedì 8 febbraio 2007

Barzi vs. Enna


VA IN SCENA LA SCRITTURA
Intervista a Bruno Enna
A cura di Davide Barzi

(da Fumo di China n° 106, febbraio 2003)


Non si ha mai abbastanza tempo per leggere tutte le storie contenute in una rivista o tutti i numeri di una serie. Uno dei criteri per selezionarle è guardare chi sono gli autori. Quando nel colophon si legge “Bruno Enna”, per esempio, si può stare sicuri che quella storia avrà uno standard narrativo elevato. Provare per credere. Bruno, la narrazione, ce l’ha nel sangue, ha quel qualcosa in più che nessuna scuola ti insegna. Eppure, fino al 1995, faceva lo scenografo, che nonostante la stessa radice linguistica di “sceneggiatore” è un lavoro lontano mille miglia dalla scrittura.
Hai mosso i primi passi in ambito creativo come scenografo, ma anche illustratore. Com’è che otto anni fa ti sei trasformato magicamente in uno sceneggiatore?
In effetti, ho lavorato alcuni anni come scenografo in una compagnia di teatro per ragazzi (realizzavo graficamente e “manualmente” le mie scene con grande divertimento, ma anche con scarso guadagno) e illustrato libri destinati al medesimo tipo di pubblico. In tutte e due le esperienze lavorative, però, mi è stata posta la stessa identica domanda: “Ma a te, piacciono i fumetti?” Insomma, in quello che facevo si vedeva che avrei voluto fare qualcos’altro. Come la maggior parte dei “fumettari”, anch’io ideavo, sceneggiavo e disegnavo praticamente da sempre le mie storie, per il piacere degli amici e dei familiari. Poi, circa un anno prima del fatidico ’95, successe qualcosa di drammaticamente importante: mi trasferii da Sassari a Milano. La magia, quindi, non c’entra (anche se a quel tempo mi avrebbe fatto comodo, per pagare l’affitto).
Quanto sono importanti nella tua formazione la scuola del fumetto e l’Accademia Disney?
Moltissimo tutt’e due, ma per motivi diversi. Ho frequentato solo un anno (l’ultimo) della scuola del fumetto, ma mi è servito a capire che volevo fare proprio quel mestiere. Lo volevo, con tutto il cuore. Amavo sceneggiare e disegnare e in quel posto si faceva solo questo; meglio di così… L’Accademia Disney, invece, è stata più che importante dal punto di vista professionale. Se alla scuola avevo intuito quello che volevo fare, all’Accademia ho capito che potevo farlo davvero. Ho frequentato il primissimo (quasi sperimentale) corso di scrittura creativa, tenuto da Alessandro Sisti, al termine del quale avevo tra le mani tutti i mezzi per potermi esprimere al meglio. Il problema, a quel punto, era convincere la redazione del Topo che quei mezzi li sapevo usare. A tutt’oggi, dopo circa otto anni di lavoro incessante e stimolante, continuo a provarci disperatamente. È di certo una frase fatta, ma è comunque vero che non si finisce mai d’imparare, come è altrettanto vero che s’impara lavorando. Nel corso della mia breve carriera ho avuto la fortuna di lavorare al fianco di professionisti affermati (soprattutto in ambiente Disney) e di continuare così un mio personalissimo “corso di studi”. Oggi, da buon sceneggiatore, continuo a “rubacchiare” un po’ di mestiere a chi è più scafato e bravo di me.

Parliamo della genesi del progetto Paperino Paperotto, che tra le altre cose ha messo in luce le doti di Alessandro Barbucci prima che diventasse una star internazionale.
Immagina tre giovani sceneggiatori in una stanza (io, Paola Mulazzi e Diego Fasano). Sembra l’inizio di una barzelletta, no? Invece, è l’inizio del Paperotto e di una buona amicizia nata proprio all’Accademia. L’idea di far tornare Paperino indietro nel tempo, nel periodo in cui pascolava allegramente per l’immacolata campagna di Nonna Papera, si fuse con quella di ritrovare il pensiero infantile del Calvin di Watterson. I riferimenti letterari (Tom Sawyer oppure La via del tabacco, di Erskine Caldwell, per citarne due) vennero assimilati e poi dimenticati, fino a che non li vedemmo riemergere spontaneamente nell’atmosfera delle storie e nella caratterizzazione dei personaggi. Poi venne Alessandro Barbucci, anch’egli fresco di Accademia, anch’egli esaltato all’idea di inventare un piccolo “mondo nel mondo” (ed era una grossa responsabilità, dato che si parlava del mondo Disney, che è già dato e ha le sue regole). Già dai primi schizzi quel geniaccio aveva capito e interpretato. Coi secondi, poi, era andato ben oltre. La redazione fu entusiasta del risultato e lo è ancora adesso. Oggi, dati alla mano, il personaggio è senz’altro uno dei più amati dai piccoli lettori di Topolino.

Più facile ricreare il background a personaggi già famosi (X-Mickey, MM, PK, Paperino Paperotto) oppure ideare ex novo una serie dalla fondamenta (W.I.T.C.H.)?
Viene quasi spontaneo pensare che la seconda attività creativa da te citata sia più appagante della prima. In realtà credo che la creazione ex novo di una serie destinata a un mensile ad alta divulgazione (nel quale, quindi, è pacifico che prima o poi qualcun altro oltre te metterà le mani) sottenda ad un complesso e articolato procedimento capace di coinvolgere non solo i primi due “creativi” in senso stretto (disegnatore e sceneggiatore, che magari discutono la cosa ogni sera per un anno davanti a una birra, terminando le serate a cazzotti), ma di mettere in gioco ben altri fattori molto meno inebrianti (precise esigenze editoriali, scelte redazionali, indagini di mercato, target di riferimento ecc…). Questo processo sfocia allora nella creazione, volontaria e non, di alcune “regole” ben precise. Regole sulla tipologia delle storie. Regole sul comportamento dei personaggi. Regole sulla strutturazione delle tavole. Regole sui dialoghi. Regole che gli stessi creatori dovranno rigidamente rispettare perché, una volta pubblicato, un fumetto non appartiene più a due sognatori ubriaconi, ma è di tutti. I procedimenti creativi messi in atto per generare una nuova serie, oppure per ridare “linfa” al background di un personaggio già esistente, quindi, sono a mio parere molto simili e si basano comunque sul rispetto delle regole. Io sono convinto che questo mestiere diventi davvero “facile” solo nel momento in cui queste regole vengono assorbite e poi dimenticate. In questo modo ogni autore (non necessariamente il creatore della serie) riesce sempre a dare un contributo importante e originale.

Tu collabori anche con la Divisione Libri Disney. Quali sono le differenze tra le due modalità di scrittura e gli errori da evitare nel passaggio tra le due?
Un errore da evitare? Considerare il pubblico un’unica massa, che legge tutto. Chi acquista i fumetti Disney non sempre compra anche i libri e viceversa. Molti libri Disney precedono e seguono i film, rivolgendosi quindi ad un pubblico molto ampio e variegato, ed il “target” di riferimento si livella in base alla tematica della pellicola. In verità, le modalità di scrittura sono talmente differenti che è quasi impossibile parlare di “passaggio” fra le due. L’unica cosa che accomuna il fumetto al libro Disney è l’attenzione per le “regole” della casa madre, che bisogna sempre tenere d’occhio. Per il resto, la mia collaborazione ai libri si risolve in: traduzione del testo americano relativo al film in arrivo, scelta delle immagini da inserire (in America gli albi hanno molte più illustrazioni), rielaborazione e riscrittura. Ovviamente è nella terza fase che mi diverto di più, ma è altrettanto ovvio che questa pratica non fa di me un vero scrittore. Al contrario, nel fumetto riesco a esprimermi al meglio.

W.I.T.C.H., PK, X-Mickey: qual è il più divertente da scrivere e perché?
Non dico banalità quando rispondo che tutti e tre sono parimenti divertenti. Il motivo, invece, sì che è banale: sono molto diversi. W.I.T.C.H. ha un’attenzione particolare per l’universo femminile e il tono della narrazione è sereno e vivace allo stesso tempo, a tratti sentimentale, a tratti comico. Le storie hanno un respiro abbastanza ampio. Mi piace moltissimo studiare i dialoghi, ma ancora di più adoro scavare nelle personalità delle singole protagoniste, che scopro in continua mutazione mentale. Will, Hay Lin, Irma, Taranee e Cornelia sono diverse e, soprattutto, non sono ancora caratterialmente definite: lentamente, ma inesorabilmente, stanno crescendo. Mi piace pensare che ogni episodio di W.I.T.C.H. si scriva da sé.
PK è molto diverso perché, anche se è mutato spesso nel corso degli anni, il suo cambiamento è stato dettato da fattori esterni alla storia e al personaggio in sé. Con PK (prima, seconda e terza serie) sono riuscito a ritagliarmi un piccolo spazio “mentale”, nel senso che, quando affronto la stesura della sceneggiatura, cerco di tirare fuori un lato nascosto della mia personalità: quello un po’ “dark”, se vogliamo usare un termine sorpassato. La composizione dell’episodio, infatti, è per certi versi più intuitiva. Certo, dietro c’è un’idea, un soggetto dettagliato, una documentazione e uno studio ben preciso, ma quando comincio a sceneggiare metto da parte la tecnica e cerco di far emergere le sensazioni. A volte ci riesco e altre volte no.
X-Mickey, infine, è la testata che mi permette di “scantonare” di più, nel senso che cerco di divertire e di divertirmi, usando un linguaggio più semplice e diretto possibile, ma anche elaborando invenzioni al limite dell’assurdo che negli altri due fumetti non sono concepibili, soprattutto perché si rivolgono a tutt’altra fascia d’età. Il bello di X-Mickey è che le regole della serie sono ancora tutte da scrivere, anche se i “paletti” (che io considero comunque sinceramente stimolanti) sono più o meno gli stessi con i quali bisogna fare i conti scrivendo una qualsiasi storia di Topolino.
Se quindi per divertimento s’intende l’opportunità di esprimere diversi stati d’animo, allora posso affermare che mi sto divertendo un sacco. Che fortuna, eh?
Torniamo a W.I.T.C.H., per ora il più importante progetto disneyano/non disneyano su cui hai lavorato. È diverso il modo di affrontare una storia con topi e paperi da quello con cui ti poni di fronte a personaggi più vicini alla realtà quotidiana, anche se mediata dalla magia?
Il mondo di W.I.T.C.H. viaggia in parallelo al nostro, si specchia in esso e riflette a sua volta un’immagine intensa e positiva. Le storie, supervisionate da Francesco Artibani, usano la magia come pretesto per sondare i rapporti umani. Ecco perché, quando affronto una storia di W.I.T.C.H., non lo faccio mai a cuor leggero. Tempo fa ho avuto un’infuocata discussione con alcune “mamme”. Le chiocce pensavano che la magia potesse dare l’impressione alle loro figliole di risolvere tutti problemi della vita. Ovviamente, non avevano mai letto W.I.T.C.H., ma questo per loro era un dettaglio trascurabile. Dovettero ricredersi aprendo uno qualsiasi degli albi pubblicati. In ogni storia i rapporti coi genitori hanno un’importanza fondamentale e i conflitti (a parte quelli coi mostri di turno) non vengono MAI risolti con la magia. Anche affrontando una nuova storia di Topi e Paperi non prendo la cosa alla leggera, ma per un altro motivo. Le storie Disney non si limitano a imitare la nostra realtà, ma ne fanno decisamente parte. Ci sono molti lettori che affermano di aver “imparato a leggere” sulle tavole di Topolino. Ogni volta che scrivo per il Topo so che quella storia verrà letta da migliaia di persone in migliaia di situazioni diverse. Io, in qualche modo, ho partecipato a un pezzetto della loro realtà quotidiana. Se non è importante questo…
La storia che scrivi deve divertirti o il tuo primo pensiero è quello di centrare gusti e interessi del tuo target di riferimento?
Io e il mio target di riferimento siamo arrivati a un accordo: io non penso ai suoi insondabili umori e lui mi paga regolarmente lo stipendio.
Qual è il target con cui ti senti più naturalmente in sintonia e per il quale scrivi più facilmente?
Quando scrivo per il Topo o per X-Mickey so che il target è “trasversale” e che quindi devo rivolgermi sia ai bambini (sei, dieci anni) sia agli adulti (trenta, quaranta, persino cinquanta o sessant’anni). Mi ritrovo a studiare delle storie e ad elaborare delle battute sperando che vengano capite e apprezzate da tutti. Nel momento in cui, invece, scrivo per un target diverso (quattordici, vent’anni o giù di lì) so di preciso che la mia storia verrà presa in esame da un tipo di pubblico selezionato e particolarmente esigente. Riuscire ad accontentare tutti è una vera sfida e, se ci penso troppo, allora non sempre mi sento in grado di affrontarla. Insomma, credo sia meglio non ragionare troppo in termini di target e scrivere di getto. Il resto, di solito, viene da sé.

Scrivi una storia, una serie, un personaggio per volta o procedi parallelamente con diverse sceneggiature?
Attualmente, la seconda che hai detto. Spesso, scrivendo per W.I.T.C.H. o PK, devo consegnare tavole settimanalmente e garantire una copertura ai diversi disegnatori impegnati nelle storie. Mi ritrovo così a lavorare parallelamente a più sceneggiature. Raramente lavoro ad una storia alla volta e, quando capita, comincio a preoccuparmi.

Dramma, azione, commedia... c'è un "genere" che senti più nelle tue corde?
Credo di amare molto il dramma, ma so anche che la commedia è potente e difficile, per questo cerco di affrontarla giornalmente. Non sono un uomo d’azione.

Sviluppare nuovi progetti, in ambito disneyano, è ormai importante quanto scrivere sceneggiature per i “vecchi”. Quale dei due ruoli trovi più gratificante?
Mi gratifica pensare di essere chiamato in causa sia nei nuovi sia nei vecchi progetti. Questo vuol dire che non sono troppo giovane per i vecchi e neppure troppo vecchio per i nuovi. Voglio restare trentenne in eterno, col cuoio capelluto possibilmente intatto.

Da dove ti arrivano gli spunti migliori? Film, fiction, altri fumetti, letteratura, figli… (Roddy Doyle, per esempio, ha creato il divertentissimo “Il trattamento Ridarelli” per avere una buona storia da raccontare ai propri bambini)
Gli spunti migliori arrivano da tutto e vanno a periodi. Un periodo, mi bastava assentare lo sguardo su MTV per far circolare le idee e acchiapparne una ogni tanto. C’è stato anche il periodo dei libri, quelli tosti, grossi e senza illustrazioni. Poi i film, quelli poco colti e molto commerciali e, infine, sono arrivati anche i figli. Al contrario del buon vecchio Roddy, io ho un figlio di tre anni e mezzo che preferisce saltarmi sulla testa piuttosto che ascoltare una buona storia. Ho anche una bambina di pochi giorni che mi guarda e rigurgita. Per adesso m’ispira sospiri, derivati da un sonno perennemente arretrato.

Fumetti preferiti? Colleghi preferiti?
Non leggo troppi fumetti, lo ammetto. Non sono un fan delle ultime generazioni supereroistiche e sbircio pochissimi fumetti giapponesi (Nausicaa di Miyazaky a parte, che continuo a rileggere). Adoro Asterix, Calvin e Hobbes, Rat-Man, Linus, Tin Tin, Dylan Dog, Julia, Gea. Mi piace tutto ciò che è Disney, soprattutto quand’è datato. Tra le letture recenti che mi hanno esaltato ci sono “V for Vendetta” di Alan Moore e David Lloyd, “La Storia del Topo Cattivo” di Bryan Talbot e “David Boring” di Daniel Clowes. Per quanto riguarda i colleghi preferiti, sorvolo per ovvi motivi su tutti quelli che conosco (te compreso! Eh, eh!), ma cito almeno alcuni “non Disney” che seguo con interesse: Vanna Vinci, Luigi Simeoni, Leo Ortolani solo per fare tre nomi. E poi i “grandi classici” come Giancarlo Berardi, Ivo Milazzo, Vittorio Giardino e chi più ne ha più ne metta. In ogni caso, guardo soprattutto agli autori italiani.

Progetti per il futuro, magari non esclusivamente disneyano?
La carne al fuoco è tanta, ma in questa fase è prematuro parlarne nel dettaglio. Ci sono alcuni progetti fumettistici ancora in fase di discussione, studiati per il mercato francese. Sto realizzando delle sceneggiature per una serie televisiva a cartoni animati, che dovrebbe esordire la prossima stagione. Sono in contatto con il bravo vignettista e umorista Lele Corvi per una striscia, che chissà se vedrà mai la luce. C’è poi un’idea ricorrente, una piccola fissazione: è il desiderio di scrivere una storia “adulta”, che ha uno sviluppo molto drammatico ed un titolo solo apparentemente semplice (Tre Silenzi), ma non ha ancora un disegnatore. Il fatto strano è che non mi preoccupa neppure l’editore: la voglio fare e basta. Quando ci riuscirò, mi sentirò meglio.
A proposito di Lele Corvi, la sua serie “in progress” Buddy Misfire è un divertente esperimento di fumetto in rete. Anche la disney è molto attenta a questo aspetto, se non altro dal punto di vista promozionale (con brevi storie create apposta per la fruizione multimediale). Cosa pensi dei comics sul web?
Penso che, nel caso di Lele e di pochi altri, il fumetto on-line funzioni benissimo. Lui sa che internet è un mezzo efficace, ma labile. Essendo un vignettista è conscio del fatto che lo spazio a sua disposizione per far sorridere è limitato da fattori temporali. Non c’è tempo per riflettere: bisogna agire. Internet è allora un ottimo mezzo per “colpire” e poi scappare. In tutti gli altri casi, però (cioè in quelli in cui c’è chi pretende di pubblicare storie da centoventi tavole con contenuti seriosi e pesanti), penso che il mezzo non possa ancora surclassare la carta. Non è un problema di collezionabilità o di tecnologia, ma di naso. Per me, il fumetto è ancora qualcosa che profuma di carta.

giovedì 1 febbraio 2007

Gorla vs. Barzi & Oskar

UMORISMO BAROCCO
a cura di Stefano Gorla
Oskar e Barzi, un duo "senza nome"
(da Fumo di China n° 90, maggio 2001)

Un duo solido, Davide Barzi e Oskar sono gli artefici di No Name, goffo ed esuberante personaggio dal pedigree co­mico-grottesco. Li incon­triamo a Milano.
Interno giorno. Scuola del Fumetto. Un pomeriggio d'aprile, tra sgabelli e tavoli da disegno. Oskar, l'uomo sen­za cognome, ha il suo book sotto il braccio, lo sfogliamo. Barzi, che di no­me fa Davide, giocherella con un CD dei Gufi (seminale gruppo milanese degli anni Sessanta). Iniziamo a parlare, rispondono all'u­nisono o in perfet­to sincrono: quando uno tace l'altro parla.


Siamo nel luogo del vostro primo incontro?
Sì, ci siamo cono­sciuti alla Scuola del Fumetto. Da quell'e­sperienza è nato anche un volumetto che contene­va un fumetto umori­stico, I Vagamondi, una se­rie creata per un'i­potetica rivista contenitore per bambini. Un progetto simpa­tico e interessante che coinvolgeva al­cune scuole elementari del milanese.

Umorismo nel sangue?
Oskar:
Ho sempre disegnato guar­dando al comico e al grottesco. Ho amato Magnus e il suo Alan Ford, e la sua Compagnia della forca. Ho ama­to a dismisura Bonvi. Sono cresciuto con quelli. Penso di non aver mai fat­to un disegnato realistico in vita mia, liceo a parte, naturalmente. Tendo a fare la testa grande, le facce molto espressive
Barzi: Stessi amori. Su queste cose ci siamo subito ritrovati, per il resto non andiamo d'accordo su niente, tranne forse la sangria.

Preferite ridere, sorridere o sghi­gnazzare?
Barzi a Oskar: Questa è difficile, dilla tu.
Oskar: Nella vita in generale, sorridere.

E nel fumetto?
Sghignazzare, certamente. Ma non so­lo. Per esempio in un episodio di No Name abbiamo inserita una piccola fiaba giocando sulle funzioni di Propp.

Mi sembra che siate affascinati dalla contaminazione dei linguaggi.
Barzi:
Per fare un paragone musicale, io adoro Elio e le Storie Te­se: prendere cultura bassa, cultura alta e cucinare il tutto. Lo trovo molto stimolante. Anche se lo scopri dopo. Senti Elio, senti le loro canzoni, c'è la volgarità, il peto e dici: sono dei creti­ni! Poi ascoltim con attenzione e trovi anche raffinatissime cita­zioni musica­li; ti trovi davanti a musicisti bravissimi e consapevoli. Noi volevamo far la stessa con il fumetto.

E ci siete riusciti?
Mah! Abbiamo ricevuto molti apprez­zamenti, ma anche critiche. Una cri­tica ricorrente è quella che nelle vi­gnette ci sono troppe cose, citazioni e un mare di particolari. Ti devi ferma­re ad ogni vignetta. Ma noi lavoriamo per aggiunta e Jacovitti è stato tra i nostri maestri.

Citazioni ma anche giochi verbali e grafici.
Appunto, citazioni letterarie ma non solo. Ci divertiamo a inserire dettagli disegnati nella vignetta, giocando su diversi piani. Mentre qualcosa succe­de in primo piano, dietro c'è una sor­ta di seconda storia che prosegue per più vignette. Per esempio nel nume­ro zero di No Name, mentre al cimi­tero c'è la scena della risurrezione di No Name, alle sue spalle c'è un tipo che ruba le salme e a un certo punto inizia a ballare con Michael Jackson, che arriva dritto dritto dal video di Th­riller.

Preferite usare diversi piani di lettura che non quello li­neare della vicenda?
Certamente. Così co­me amiamo molto uscire dal seminato. Non stare solo sul fu­metto ma spaziare: fumetto, favola, sonetto. Nel terzo episodio di No Name abbiamo inseri­to un sonetto, come nel primo episo­dio una favola. Ci piace mescolare lin­guaggi, senza compartimenti stagni.

Il vostro modus operandi?
Partiamo da un soggetto in genere le­gato a una situazione paradossale e poi ci lavoriamo insieme a quattro ma­ni, discutendo, provando, divertendo­ci parecchio. Cerchiamo di essere mol­to sinceri l'uno con l'altro, schietti, al­la ricerca della soluzione migliore, nel testo e nel disegno. Con questo siste­ma abbiamo creato No Name. Il nu­mero zero era una storia a sé, otto ta­vole di base che sono diventate venti­quattro. Esiste anche un numero uno mai pubblicato, giocato sulla casualità più totale. 32 pagine dove al messo più roba possibile, senza chiudere il finale. Avevamo pensato a un progetto sviluppato in sei numeri, e continuity americana. Abbiamo iniziato facendo le prime trentadue pagine e poi... quelli di Comics & Dintorni – il nostro primo editore - ci hanno fatto aprire gli occhi dicendo e un fumetto confuso; fa­cendoci riflettere che con un'uscita semestrale o an­nuale c'era la cer­tezza di perdere contatto con il pub­blico. Per cui quel numero è rimasto nel cassetto. E siamo ripartiti pen­sando a episodi autoconclusivi, se­guendo una metodica classica.

Come è nata l'idea di No Name?
Barzi:
Era un personaggio assoluta­mente secondario. Nel numero zero infatti muore, quasi subito, doveva es­sere una sorta di comparsa.
Oskar: Nella sceneggiatura c'era scrit­to: "supereroe giapponese di poca im­portanza: tanto muore subito!". E io l'ho fatto un po' sfigato: obeso, senza nessun potere, costumino troppo cor­to, pantaloni alla Obelix. È un eroe stupido con slanci cinici solo quando è spinto dal bisogno. È uscito di prepotenza.

Altri personaggi?
Ne abbiamo un cassetto pieno. Abbia­mo avuto un periodo di iperproduzione. Facendo fallire molta editoria minore italiana (ridono!). Noi propo­nevamo un fumetto e le testate mori­vano, anche se per cause non riconducibili a noi. Resta il fatto.

Portate sfìga?
Non dirlo, se no la gente ci crede. Cer­to è che dopo l'avventura di Prato al premio Pierlambicchi, l'abbiamo pro­posto No Name al gruppo de L'Isola che non c'è (edizioni Comica), a cui piaceva, ma avendo la rivista un'im­postazione più da striscia, ci hanno detto: o lo ridisegnate o ci portate al­tro. Abbiamo portato altro. Una striscia dal titolo Rynghio & Raskio, due alie­ni che vogliono conquistare il mondo da soli. Uno più scaltro e l'altro un po' fesso, classica coppia; il valore aggiunto sta nel fatto che sono alieni. La cosa è piaciuta ed eravamo pronti per la pub­blicazione: addirittura, su Mega (rivi­sta di anteprime), apparve una striscia accompagnata dalla scritta "la nuova serie sarà presente sul numero 12 del­la rivista". Sotto, aggiunto di fretta e furia, un teschietto e la scritta: "la te­stata chiude con il numero 11". Un'altra storiella frustrante è lega­ta alle vicende della redazione milanese di Cuore, seconda ma­niera. A loro proponiamo BB, storia di una bambina bastar­da, una striscia dove la realtà è vi­sta con gli occhi e con la cattive­ria tipica dei bambini. Nel frat­tempo si è consumato uno scon­tro tra la redazione milanese e quel­la romana. Ha vinto la romana.

Un'anticipazione, senza far chiu­dere un'altra testata?
Pare che si venda bene il fu­metto erotico e allora ab­biamo fatto una storia eroti­ca, breve, 8 tavole. Oskar è abbastanza bravo nel disegno dei corpi femminili e questo non guasta certo.

Erotico-umoristico?
Certamente, non riusciamo a far a me­no dell'umorismo. Infatti il personag­gio principale di questa breve storia è una divinità millenaria a forma falli­ca. Divinità che dona fortuna alla don­na che lo porta con sé, ma questo a patto che non lo faccia mai "crollare", perché nel momento in cui non arri­va più ossigeno al cervello (??!) la di­vinità muore e non porta più fortuna.

Rapporto con il pubblico?
Molto positivo. Ci siamo accorti che c'è un buon feeling; non abbiamo mi­gliaia di lettori ma difficilmente chi compra un numero poi ci abbandona. Addirittura i nostri lettori comprano più copie di un episodio, un po' perché abbiamo iniziato il gioco della coper­tina diversa nel primo episodio, un po' perché alle fiere a chi acquista un nu­mero diamo sempre un disegno ori­ginale. C'è chi ha più copie dello stes­so episodio.

Beh, ne avete fatti due...
C'è anche lo zero. Comunque la gen­te ritorna, parla. Ci mandano mail, qualcuno addirittura ha scritto per po­sta e i commenti sono quasi tutti po­sitivi. Le critiche sono però abbastan­za radicali: è illeggibile.

No Name ha partecipato alle elezioni del fumetto italiano del 13 gennaio 2001?
E ha preso voti, non pochi tutto som­mato. Anche perché a Lucca abbiamo fatto una campagna spietata. Il volan­tino aveva testi incisivi: "mettici una croce sopra"; "nel segno della conti­nuità: vota un cadavere"; "un impe­gno concreto: scendo in un cam­po...santo" e noi lo spacciavamo nei pressi dei seggi. E allo stand regalavamo sangria a chi ci prometteva di andare a votare per No Name. Vero clientelismo.

Impegnati a tempo pieno nella pro­mozione.
Mostre, presentazioni, partecipazione alle fiere del fumetto, presenza nelle fumetterie, No Name News via posta elettronica. Addi­rittura abbiamo presentato No Name al cinema di Rozzano, ridente paese dell'hinterland mi­lanese. Una serata interessante do­ve si è messo insieme degusta­zione, fumetto e cinema. Generi e linguaggi. Abbiamo presenta­to il fumetto e un film (Denti di Salvatores) in un clima va­gamente surreale. Certo, oltre al­l'impegno c'è chi crede in noi, co­me Gianni Bono dell'Epierre che ci pubblica, e Bono non scher­za sulla qualità. Poi c'è una grande donna alle nostre spal­le, Graziella Calatroni, redattrice e factotum dell'E­pierre. Fra le prime fan di No Name che ci ha aiu­tato, e aiuta, in mille mo­di: controlla bozze, lettering, disegni, manda in giro le coi prepara le cartelle stampa. Se non ci fosse bisognerebbe inventarla.

In No Name è più importante la battuta o l'atmosfera?
L'atmosfera. Tutto nasce da una situazione particolare e in quel contesto nasce il gioco delle battute. Da battuta diretta al particolare del disegno che fa ridere (ci prova almen0) L'idea è quella di mettere i personaggi in situazioni assurde: nel numero tre, per esempio, ci sono gli Elfi, le fate, un mondo incantato inserito in contesto gangster. Gli Elfi sono gangster e le fate sono prostitute. Per darci un tono chiamiamo No Name un fumetto di generi, cosa e spiazza un po' i lettori. Non ci siamo inseriti in un filone: il primo nume era guardava all'horror, poi il western, la gangster story e infine la fantascienza. Lega tutto il personaggio, senza peso nonostante il peso. Un personaggio stupidamente intelligente e intelligentemente stupido.

Sulla frase storica scende il silenzio. I tre si guardano negli occhi. E ridono.