Intervista a Diego Cajelli
Oggi, nel campo della promozione e della pubblicità, si abusa spesso di un termine che dovrebbe invece essere usato con il contagocce, “creativo”. Questa, così come altre parole, andrebbe preservata, usata solo da poche persone e in pochi ambiti, pena la svalutazione. Già, perché se si può definire “creativo” uno che inventa uno slogan per una compagnia telefonica, quale aggettivo può dare l’idea di una persona che scrive racconti, fiabe per bambini, poesie per un libro di fotografie subacquee, oroscopi bizzarri, articoli su parapsicologia e misteri nonché di critica e analisi del fumetto e – last but not least – decine e decine e ancora decine (in pochi anni) di storie a fumetti, per quasi tutti gli editori italiani? Aggettivi nessuno, ma un nome e un cognome: Diego Cajelli.
Melissa P. Mazzantini, Michele Giuttari: alcuni degli ultimi romanzi di successo sono dei diari. Perché il fumetto italiano ha quasi sempre bisogno di eroi fantastici e nomi esotici? Perché così di rado gli sceneggiatori raccontano se stessi?
Le Fantastiche Avventure di Matt Martigan, l’Esploratore del Plausibile, sono un ottimo veicolo per raccontare se stessi, nascondendosi tra le righe dell’immaginario e cambiando la location della delusione d’amore dalla terza B del Liceo Manzoni alle miniere di sale del pianeta Xrud. È una questione di scelte, io preferisco nascondermi all’interno della narrazione di genere, e solo ultimamente (con Luca Bertelè su AF Volume 1 e 2) ho scelto di raccontare in modo diretto degli eventi personali, paragonabili a un diario. Li considero comunque degli esperimenti, delle prove estemporanee; dopo un po’ il desiderio di salvare il mondo dagli zombi atomici del Dottor Grogher comincia a farsi sentire…
In Italia, chi è secondo te il migliore nella difficile arte del raccontarsi a fumetti?
L’unico che riesce a farlo, attraverso un vero e proprio diario intriso di eventi e riflessioni personali dirette, mescolate con Satana, alieni e scontri all’ultimo sangue è Maurizio Rosenzweig. Lui però è un genio autentico, è un po’ come Maradona, io sono solo un onesto terzino. Il diario “puro” è comunque una forma di fumetto che appartiene prevalentemente agli autori completi. Esistono molte autoproduzioni (se non quasi tutte) sotto forma di diario, e ogni tanto, anche su questa rivista, compare qualche pagina del geniale diario visivo di Alessandro Baggi. Gli sceneggiatori raccontano sicuramente se stessi, ma in pochi se ne accorgono. Credo che “gli affari miei” possano interessare i lettori solo se sono mediati attraverso un genere di riferimento. Devono arrivare attraverso un personaggio e non tramite me stesso in prima persona. Sarebbe la stessa cosa anche cambiando media.
Siccome otre che sceneggiatore sei anche scrittore, continuiamo a cercare analogie: Mauro Covacich, Antonio Moresco, Tiziano Scarpa e Giulio Mozzi si raccontano anche attraverso i loro blog personali. Questo succede anche per alcuni sceneggiatori di fumetti, come per esempio tu e Roberto Recchioni. Qual è per te la funzione del weblog? Ha dei riflessi sul tuo mestiere?
Il mio blog, nella sua prima versione, è rimasto aperto per alcuni mesi, poi ho deciso di chiuderlo, c'erano dei problemi tecnici e ho preferito porre fine a quel tipo di esperienza. Divertente, interessante, ma non avevo le idee chiare su come gestirlo, e alla fine non mi sembrava corretto usarlo per buttarci dentro gli avanzi della mia cartella documenti. Poi, da poco, ho deciso di aprirne un altro, che si trova qui. Forse ho capito che cosa metterci, non avanzi ma parti di quello che c'è dentro di me, storie, battute, riflessioni. Forse i riflessi di un blog ci sono se il tuo lavoro è tenere un blog. Onestamente mi sembra che per qualcuno lo sia e lo trovo legittimo, nel mio caso non lo so… non ancora, perlomeno!
Entriamo ora nello specifico della scrittura, toccando alcune tappe della tua carriera, nella quale hai già avuto a che fare con diversi personaggi e case editrici, ma anche diversi campi espressivi, non necessariamente attinenti al fumetto. A ventidue anni, con nessuna esperienza alle spalle, ti sei trovato a gestire una pubblicazione da edicola con personaggi tuoi, Virtual Heroes. Da editore, ti saresti dato fiducia? Quanto hai imparato da quella esperienza? È un modo di cominciare che consiglieresti a un esordiente o credi sia meglio partire un po' più in sordina?
Il concept di Virtual Heroes non era mio, ma dell’editore. Io ho semplicemente mosso dei personaggi creati da un altro; serviva uno sceneggiatore “puro”, in grado di gestire la loro idea sul piano narrativo, così hanno chiamato me. Ero molto giovane ma, a quanto pare, sono stato convincente. Non so se da editore “mi sarei dato fiducia”, ma sicuramente “mi sarei dato un buon redattore”, in grado di raddrizzare le mie ingenuità, o per lo meno capace di intervenire in modo diretto sul mio lavoro impedendomi di scrivere certe cose, che oggi rileggo con un certo imbarazzo, non tanto per il contenuto, inteso come intreccio, plot e idea di base, quanto per la forma, soprattutto nella composizione dei dialoghi e nelle famigerate quarte di copertina, per le quali vengo tutt’ora ricattato. Da quella esperienza ho imparato moltissimo, mi è servita molto da un punto di vista umano, ho capito come relazionarmi con il mio lavoro e come reagire di fronte all’esordio. E l’ho fatto attraverso i miei errori. Direi quindi che è stata una partenza in sordina, ci ho messo molto tempo a guadagnarmi del credito, quando avevo alle spalle solo quella pubblicazione. La prima cosa interamente “mia”, è stata Pulp Stories. Forse è meglio considerare quello come mio esordio “ufficiale” e chiudere il resto dentro l’armadio degli scheletri!
Tra le cose più interessanti dei tuoi anni d'esordio ci sono sicuramente le due miniserie, appunto Pulp Stories e poi Randall McFly. Nessuna di queste era preventivata per più di sette episodi, e con l'ultimo numero si sono fermate. A distanza di anni, saltelli continuamente da una testata all'altra. Non hai mai il desiderio di fermarti e soffermarti su un personaggio, tuo o di altri, cercando di costruire con lui un rapporto più duraturo?
Decisamente sì! Anche se per fortuna, ultimamente sono riuscito a fermarmi, il mio rapporto con Dampyr e Zagor è molto più stabile, è una relazione “sentimentale” che si sta consolidando. Sono in un momento professionale bizzarro in cui le mie storie in fase di realizzazione superano per numero quelle edite, ma assicuro che ho smesso di saltellare, tutta la mia produzione recente si è concentrata solo su quei due personaggi, merito di Mauro Boselli e Moreno Burattini che mi hanno dato molta fiducia. Poi, chiaramente, c’è quel desiderio molto forte di fare qualcosa di interamente mio e più lungo di sette episodi. Forse un domani… chissà…
La relazione sentimentale con il vampiro segue senza dubbio un percorso che ti lega a personaggi e a un modo di narrare "moderni". Il rapporto con lo spirito con la scure è invece più curioso: come nasce e si sviluppa questa liaison?
Ho sempre letto fumetti, fin da piccolo, ho un insieme di ricordi piuttosto nebuloso, ma sono moltissime le immagini che, come sogni sfuocati, mi porto dietro da quegli anni. Quando di fumetti ho cominciato a “capirne” un po’ di più sono andato a ritroso, cercando l’origine di quelle figure che appartengono più al cuore che alla realtà. A parte le crisi di pianto quando è morta la ragazza bionda dell’Uomo Ragno, a parte due fratelli con la faccia da toro che uscivano da un treno deragliato (ecco, questa proprio non sono riuscito a “riscoprire” che fumetto era) una delle immagini della “mia infanzia” era Zagor morso ripetutamente dai serpenti. “Masai Killer”, 1977. Avevo sei anni e cercavo in tutti i modi di costruirmi la scure, ma niente da fare, la pietra sulla cima del bastone non ci voleva stare. Rubai un martello dalla cassetta degli attrezzi e mi arrangiai. Poi mio cugino mi fece notare che assomigliavo più a Cico che a Zagor. Oltretutto lui era molto più alto e più magro, di conseguenza lui doveva fare Zagor e io Cico.
Rabbia.
La rabbia di uno Zagor dentro il corpo di Cico.
Beh, ora – a distanza di anni – puoi finalmente “essere” Zagor.
Già, posso finalmente esserlo sul serio, muoverlo (muovermi) come volevo fare da bambino, la pietra sul bastone ci sta, non cade, e ci sono ancora moltissime avventure da fare. L’Avventura è uno stato dell’anima, non c’è niente di meglio di una frontiera, di un gruppo di cattivi da sgominare e la volontà di farlo… non c’è moderno o antico, c’è narrazione nel senso puro del termine, pane per i denti di un qualsiasi scrittore. Poi, da un punto di vista lavorativo, dopo aver letto molti Zagor con gli occhi del professionista e non del bambino, conservando però quel sense of wonder, ho dovuto per forza fare i conti con l’estrema complessità del personaggio e il suo ruolo di vera icona del fumetto. Ma a farlo non ero da solo, e soprattutto non c’era mio cugino, bensì Burattini! Lui mi aiuta moltissimo nella stesura del linguaggio specifico, mi insegna e mi spiega la grammatica zagoriana, risolvendo i miei problemi di forma mentale legata a strutture “moderne”, che si avvertivano soprattutto nella composizione delle frasi.
Qualcuno sostiene che il mestiere dello sceneggiatore si possa imparare ma non insegnare. Cosa rispondi, tu che hai scritto un manuale sull'argomento e da anni sei in forza alla Scuola del fumetto di Milano come insegnante di scrittura per i fumetti?
La creatività non si può insegnare, ma è possibile suggerire un modo per esprimerla. Ai ragazzi dico spesso che frequentare il mio corso è come andare a scuola guida: io posso spiegare il codice della strada, dei rudimenti di meccanica e come parcheggiare senza salire sul marciapiede, ma la voglia di guidare, la prontezza di riflessi e soprattutto la macchina, sono cose di loro competenza. L’errore è credere che un corso di scrittura creativa possa insegnare a farsi venire in mente delle storie. Non è così. Il fine è (secondo me) capire come raccontare un’idea che si deve avere già in mente, scoprendo come gestirla, come portarla a termine.
Su cosa sono basate e tue lezioni?
Sugli stimoli e la tecnica. Cerco in qualche modo di aiutare a controllare il proprio istinto narrativo. Perché non si può basare un lavoro unicamente sull’istinto. Il muratore, mentre tira su un muro, sa esattamente che cosa sta facendo, come deve iniziare e come deve finire, sa quali problemi può incontrare e come risolverli, non si mette a costruire un muro in base a come si alza la mattina, andando per tentativi. La scrittura creativa merita lo stesso impegno, la stessa preparazione specifica.
Ora qualcuno dirà che non serve solo la tecnica, è necessario il cuore e il talento.
Esatto.
È per questo motivo che alcuni muri sono meglio di altri, è qui che vengono fuori il talento e le proprie capacità individuali. È il motivo per cui un determinato muratore è preferito rispetto ad un altro, o perché un muro è solido e l’altro no…
Un luogo comune vuole che i fumetti erotici (o pornografici, scegli tu) non abbiano bisogno di essere scritti, basta disegnare un certo quantitativo di corpi nudi più perversioni varie ed eventuali. Con le storie di Godiman per Le Ore pensi di aver in qualche modo dimostrato il contrario? Come? Perché?
Godiman partiva proprio dal presupposto che i “porni a due strisce” tanto non li legge nessuno, editore e redattori compresi. Sfruttai in modo subdolo quel concetto redazionale secondo cui la sceneggiatura in quei casi non serve, è inutile, basta che ci sia una concatenazione visiva di eventi (e, spesso, nemmeno quella). Sapevo di lavorare in una sorta di limbo, dove nessuno avrebbe controllato ciò che scrivevo, dove forse avrebbero letto l’albo completo una volta uscito in edicola. Dico forse, perché la genesi di Godiman è davvero incredibile. Il primo numero uscì con il nome di Orgasman, scritto e ideato da un tizio di cui non ricordo il nome. Il primo numero andò in edicola mentre stavano ultimando il secondo. Dopo un po’ arrivò alla redazione una raccomandata di un altro editore; le prove contenute dimostravano che la stessa identica serie, lo sceneggiatore originale l’aveva già venduta anni prima a un’altra casa editrice, quindi quel numero uno era praticamente già stato editato. La serie venne fermata, ma avevano già fatto disegnare tutto il numero due, di conseguenza serviva uno che – partendo da disegni già fatti – rielaborasse il tutto ricostruendo una storia nuova e inedita.
Diego Cajelli.
Eccomi. Pienamente conscio del fatto che il mio lavoro aveva un’importanza pari a zero, ho fatto esattamente il contrario di ciò che si fa in questi casi. Non ho tirato via, non ho detto: “macchisenefrega, scriviamo scemate”, ho preso in mano il personaggio e l’ho trattato seguendo una logica precisa di cortocircuitazione della struttura narrativa, creando un folle contesto di presa di coscienza della demenzialità e dei limiti del “pornazzo da caserma”, dove il basso, la violenza, l’estrema volgarità sono delle scelte precise e non delle note di colore, una linea distante dal “mettiamo assieme un po’ di tavole e facciamoci pagare”. Il tutto in relazione in strettissimo legame metatestuale con il mezzo che stavo usando. La mia idea era quella di fare con “il due strisce” cose che nessuno si aspetterebbe in una produzione simile. Riletto oggi, Godiman ha l’aria di essere un grande fumetto situazionista.
Citazioni coltissime e volgarità gratuite, livelli infimi e poesia…
È il mio lavoro migliore, solo di Godiman parlo in questi termini, di solito sono ipercritico con le mie cose, ma in questo caso tesso lodi sperticate, facendo anche l’antipatica figura del borioso, ma vi prego, concedetemelo! Dopo i primi due numeri, dove ho mescolato le tavole e riscritto i balloon, sono andato avanti, scrivendone altri tre assolutamente inediti. Godiman è stato l’unico “porno a due strisce” di quel periodo a ricevere posta, un lettore ha capito il senso post moderno/situazionista e la serie gli piaceva da impazzire. Roy Klang, il disegnatore di Godiman, oggi è diventato una superstar del mondo dell’illustrazione Gay. Ogni tanto ci sentiamo, ricordando i bei vecchi tempi in cui raccontavamo le storie di un personaggio in grado di dire: “Tieni, è bello e pesante come il Castello di Kafka”. Vorrei tanto che qualcuno lo ristampasse! (…)
Da Video inferno a Lele, Sabry e Tobia, tanto per citare due estremi della tua produzione, due lavori destinati a target completamente differenti. Quando scrivi pensi a te stesso o al tipo di lettore a cui quelle storie si rivolgono?
Il lettore è al centro della mia attenzione, il mio compito è quello di intrattenerlo, di raccontargli una storia, cercando di stupirlo e di farlo divertire. Poi, è chiaro, alcune cose mi vengono un po’ meglio di altre, alcuni generi li preferisco ad altri, e il passare attraverso i generi, da un target all’altro, mi aiuta a migliorare la mia scrittura, a capire cose nuove di questo lavoro. Lele, Sabry e Tobia viene pubblicato su una rivista per abbonati che tira 30.000 copie di media, le pagine della posta sono zeppe di disegni fatti con i Carioca dei nostri personaggi; io e Bertelè – tramite quei disegni – capiamo quanto affetto ci sia per il nostro lavoro. Quando scrivo penso a quei disegni e al bambino che leggerà il suo giornalino. Ogni tanto ci concediamo degli esperimenti, scoprendo che i bambini sono sveglissimi e attenti, disposti a impegnarsi nella lettura.
Un esempio?
Una volta abbiamo spedito i protagonisti nella closure tra una vignetta e l’altra in cerca dell’intelligenza, un’altra volta sono finiti in un mondo parallelo dominato dai greci e abbiamo spiegato le teorie quantiche del multiverso. Penso sempre al lettore, ma in termini di stimolo, di novità, cercando di raccontargli qualcosa di nuovo; cambiando il target, cambio la struttura, il linguaggio o la dose di impegno. Poi, chiaramente, tra me e il lettore c’è un qualcosa di mezzo, la casa editrice, la testata, le logiche redazionali… A volte ci sono dei problemi, è normale che ci siano, e per risolverli mi vengono in aiuto Carrie Bradshow, la protagonista di Sex & the city, e una sua battuta quando viene assunta da Vogue: "Bisogna solo mettere un po’ di Carrie Bradshow in un articolo per Vogue, e non viceversa." Una morale che può aiutarti tantissimo, se scrivi per lavoro.
Capitan Italia, Il massacratore, Examen, Simbolo: più volte ti sei trovato a scrivere di super eroi. Cosa ne pensi degli eroi con costume e superpoteri? Ti piacerebbe infilare nel tuo ricco carnet anche storie di qualche icona statunitense? Se sì, quale? E se ti venisse data totale libertà, dove porteresti il personaggio?
Amo i super eroi. Sono un veicolo per raccontare l’universo umano, sono lo specchio del Luna Park, l’essenza dell’individuo/individui filtrata e rielaborata dalla visione iconica adattabile dell’uomo in costume. Dietro la maschera, dentro il costume ci siamo noi, tutti noi, nessuno escluso. Mi piacerebbe avere la possibilità di sviluppare un concetto su cui sto riflettendo da un po’: un supereroe in quanto tale, scardina la linea cartesiana della definizione classica di uomo. La forza non è nel superpotere, ma nello specifico del “cogito”, se si parte dal “Penso dunque sono” il passaggio logico successivo è “Sono quello che penso”, sono un super eroe perché penso da super eroe, salverei il mondo anche se non sapessi volare e sollevare carri armati a mani nude. Capitan America, Thor, L’Uomo Ragno e Hulk si presterebbero bene ad un lavoro su questo concetto… Chiaramente, raccontando qui quest’idea, l’ho “brevettata”, useremo queste pagine in caso di future controversie legali!
Ora che hai trovato un tuo spazio all’interno di una grossa casa editrice, è da considerare passato l’entusiasmo con cui hai dato vita a importanti iniziative editoriali indipendenti quali la TrogloComics Ltd, la Factory e la rivista Fresco?
No, direi che è esattamente il contrario. Io amo fare fumetti, e questo amore non è andato perduto scrivendo tutti i santi giorni. Ho continuato a scrivere per l’editoria indipendente, e a breve usciranno alcuni lavori molto interessanti. Forse è proprio in questo momento in cui lavoro molto da “dipendente” che posso esprimermi al meglio nel settore “indipendente”. Questa linea io non la vedo come uno sfogo, ma come una possibilità narrativa. Sono due mondi separati con regole diverse, ed è sacrosanto che sia così.
Tu hai scritto molti fumetti per testate non a fumetti, come per esempio Touring Junior, Il Sole 24 ore, Le Ore. Cosa cambia nel tuo approccio alla narrazione qualcosa quando sai che il tuo lettore non sarà necessariamente avvezzo alla lettura di fumetti?
Cambia molto il rapporto con il committente, non con il lettore, se a commissionare un fumetto non è un editore, ma ad esempio un ente, o un'organizzazione istituzionale. Il primo incontro per me è sempre molto divertente, come è accaduto di recente: ho infatti appena concluso un lavoro sul concetto di volontariato per la lega delle cooperative. Loro scoprono che l'universo del fumetto è molto più complesso e ricco di quanto si aspettavano, io scopro che con le parole giuste si può convincere il committente a tentare un qualcosa di più "estremo" rispetto all'idea iniziale che aveva. Per chi non frequenta il nostro ambiente, il fumetto è rimasto fermo agli anni Sessanta, scolastico e immobile; io gli faccio vedere le cose di Alan Moore e Neil Gaiman e a loro si illuminano gli occhi, vedono un piccolo assaggio delle potenzialità del media, della forza comunicativa che possono avere a disposizione. Di solito mi ascoltano, magari tornano a casa con un qualcosa di molto diverso rispetto alle loro aspettative, ma molto più intrigante.