sabato 20 ottobre 2007

Zagor nel corpo di Cico

Intervista a Diego Cajelli
di Davide Barzi
(pubblicata in origine su Fumo di China n° 125 del dicembre 2004)

Oggi, nel campo della promozione e della pubblicità, si abusa spesso di un termine che dovrebbe invece essere usato con il contagocce, “creativo”. Questa, così come altre parole, andrebbe preservata, usata solo da poche persone e in pochi ambiti, pena la svalutazione. Già, perché se si può definire “creativo” uno che inventa uno slogan per una compagnia telefonica, quale aggettivo può dare l’idea di una persona che scrive racconti, fiabe per bambini, poesie per un libro di fotografie subacquee, oroscopi bizzarri, articoli su parapsicologia e misteri nonché di critica e analisi del fumetto e – last but not least – decine e decine e ancora decine (in pochi anni) di storie a fumetti, per quasi tutti gli editori italiani? Aggettivi nessuno, ma un nome e un cognome: Diego Cajelli.

Melissa P. Mazzantini, Michele Giuttari: alcuni degli ultimi romanzi di successo sono dei diari. Perché il fumetto italiano ha quasi sempre bisogno di eroi fantastici e nomi esotici? Perché così di rado gli sceneggiatori raccontano se stessi?

Le Fantastiche Avventure di Matt Martigan, l’Esploratore del Plausibile, sono un ottimo veicolo per raccontare se stessi, nascondendosi tra le righe dell’immaginario e cambiando la location della delusione d’amore dalla terza B del Liceo Manzoni alle miniere di sale del pianeta Xrud. È una questione di scelte, io preferisco nascondermi all’interno della narrazione di genere, e solo ultimamente (con Luca Bertelè su AF Volume 1 e 2) ho scelto di raccontare in modo diretto degli eventi personali, paragonabili a un diario. Li considero comunque degli esperimenti, delle prove estemporanee; dopo un po’ il desiderio di salvare il mondo dagli zombi atomici del Dottor Grogher comincia a farsi sentire…

In Italia, chi è secondo te il migliore nella difficile arte del raccontarsi a fumetti?
L’unico che riesce a farlo, attraverso un vero e proprio diario intriso di eventi e riflessioni personali dirette, mescolate con Satana, alieni e scontri all’ultimo sangue è Maurizio Rosenzweig. Lui però è un genio autentico, è un po’ come Maradona, io sono solo un onesto terzino. Il diario “puro” è comunque una forma di fumetto che appartiene prevalentemente agli autori completi. Esistono molte autoproduzioni (se non quasi tutte) sotto forma di diario, e ogni tanto, anche su questa rivista, compare qualche pagina del geniale diario visivo di Alessandro Baggi. Gli sceneggiatori raccontano sicuramente se stessi, ma in pochi se ne accorgono. Credo che “gli affari miei” possano interessare i lettori solo se sono mediati attraverso un genere di riferimento. Devono arrivare attraverso un personaggio e non tramite me stesso in prima persona. Sarebbe la stessa cosa anche cambiando media.

Siccome otre che sceneggiatore sei anche scrittore, continuiamo a cercare analogie: Mauro Covacich, Antonio Moresco, Tiziano Scarpa e Giulio Mozzi si raccontano anche attraverso i loro blog personali. Questo succede anche per alcuni sceneggiatori di fumetti, come per esempio tu e Roberto Recchioni. Qual è per te la funzione del weblog? Ha dei riflessi sul tuo mestiere?
Il mio blog, nella sua prima versione, è rimasto aperto per alcuni mesi, poi ho deciso di chiuderlo, c'erano dei problemi tecnici e ho preferito porre fine a quel tipo di esperienza. Divertente, interessante, ma non avevo le idee chiare su come gestirlo, e alla fine non mi sembrava corretto usarlo per buttarci dentro gli avanzi della mia cartella documenti. Poi, da poco, ho deciso di aprirne un altro, che si trova qui. Forse ho capito che cosa metterci, non avanzi ma parti di quello che c'è dentro di me, storie, battute, riflessioni. Forse i riflessi di un blog ci sono se il tuo lavoro è tenere un blog. Onestamente mi sembra che per qualcuno lo sia e lo trovo legittimo, nel mio caso non lo so… non ancora, perlomeno!

Entriamo ora nello specifico della scrittura, toccando alcune tappe della tua carriera, nella quale hai già avuto a che fare con diversi personaggi e case editrici, ma anche diversi campi espressivi, non necessariamente attinenti al fumetto. A ventidue anni, con nessuna esperienza alle spalle, ti sei trovato a gestire una pubblicazione da edicola con personaggi tuoi, Virtual Heroes. Da editore, ti saresti dato fiducia? Quanto hai imparato da quella esperienza? È un modo di cominciare che consiglieresti a un esordiente o credi sia meglio partire un po' più in sordina?
Il concept di Virtual Heroes non era mio, ma dell’editore. Io ho semplicemente mosso dei personaggi creati da un altro; serviva uno sceneggiatore “puro”, in grado di gestire la loro idea sul piano narrativo, così hanno chiamato me. Ero molto giovane ma, a quanto pare, sono stato convincente. Non so se da editore “mi sarei dato fiducia”, ma sicuramente “mi sarei dato un buon redattore”, in grado di raddrizzare le mie ingenuità, o per lo meno capace di intervenire in modo diretto sul mio lavoro impedendomi di scrivere certe cose, che oggi rileggo con un certo imbarazzo, non tanto per il contenuto, inteso come intreccio, plot e idea di base, quanto per la forma, soprattutto nella composizione dei dialoghi e nelle famigerate quarte di copertina, per le quali vengo tutt’ora ricattato. Da quella esperienza ho imparato moltissimo, mi è servita molto da un punto di vista umano, ho capito come relazionarmi con il mio lavoro e come reagire di fronte all’esordio. E l’ho fatto attraverso i miei errori. Direi quindi che è stata una partenza in sordina, ci ho messo molto tempo a guadagnarmi del credito, quando avevo alle spalle solo quella pubblicazione. La prima cosa interamente “mia”, è stata Pulp Stories. Forse è meglio considerare quello come mio esordio “ufficiale” e chiudere il resto dentro l’armadio degli scheletri!

Tra le cose più interessanti dei tuoi anni d'esordio ci sono sicuramente le due miniserie, appunto Pulp Stories e poi Randall McFly. Nessuna di queste era preventivata per più di sette episodi, e con l'ultimo numero si sono fermate. A distanza di anni, saltelli continuamente da una testata all'altra. Non hai mai il desiderio di fermarti e soffermarti su un personaggio, tuo o di altri, cercando di costruire con lui un rapporto più duraturo?
Decisamente sì! Anche se per fortuna, ultimamente sono riuscito a fermarmi, il mio rapporto con Dampyr e Zagor è molto più stabile, è una relazione “sentimentale” che si sta consolidando. Sono in un momento professionale bizzarro in cui le mie storie in fase di realizzazione superano per numero quelle edite, ma assicuro che ho smesso di saltellare, tutta la mia produzione recente si è concentrata solo su quei due personaggi, merito di Mauro Boselli e Moreno Burattini che mi hanno dato molta fiducia. Poi, chiaramente, c’è quel desiderio molto forte di fare qualcosa di interamente mio e più lungo di sette episodi. Forse un domani… chissà…

La relazione sentimentale con il vampiro segue senza dubbio un percorso che ti lega a personaggi e a un modo di narrare "moderni". Il rapporto con lo spirito con la scure è invece più curioso: come nasce e si sviluppa questa liaison?
Ho sempre letto fumetti, fin da piccolo, ho un insieme di ricordi piuttosto nebuloso, ma sono moltissime le immagini che, come sogni sfuocati, mi porto dietro da quegli anni. Quando di fumetti ho cominciato a “capirne” un po’ di più sono andato a ritroso, cercando l’origine di quelle figure che appartengono più al cuore che alla realtà. A parte le crisi di pianto quando è morta la ragazza bionda dell’Uomo Ragno, a parte due fratelli con la faccia da toro che uscivano da un treno deragliato (ecco, questa proprio non sono riuscito a “riscoprire” che fumetto era) una delle immagini della “mia infanzia” era Zagor morso ripetutamente dai serpenti. “Masai Killer”, 1977. Avevo sei anni e cercavo in tutti i modi di costruirmi la scure, ma niente da fare, la pietra sulla cima del bastone non ci voleva stare. Rubai un martello dalla cassetta degli attrezzi e mi arrangiai. Poi mio cugino mi fece notare che assomigliavo più a Cico che a Zagor. Oltretutto lui era molto più alto e più magro, di conseguenza lui doveva fare Zagor e io Cico.
Rabbia.
La rabbia di uno Zagor dentro il corpo di Cico.

Beh, ora – a distanza di anni – puoi finalmente “essere” Zagor.
Già, posso finalmente esserlo sul serio, muoverlo (muovermi) come volevo fare da bambino, la pietra sul bastone ci sta, non cade, e ci sono ancora moltissime avventure da fare. L’Avventura è uno stato dell’anima, non c’è niente di meglio di una frontiera, di un gruppo di cattivi da sgominare e la volontà di farlo… non c’è moderno o antico, c’è narrazione nel senso puro del termine, pane per i denti di un qualsiasi scrittore. Poi, da un punto di vista lavorativo, dopo aver letto molti Zagor con gli occhi del professionista e non del bambino, conservando però quel sense of wonder, ho dovuto per forza fare i conti con l’estrema complessità del personaggio e il suo ruolo di vera icona del fumetto. Ma a farlo non ero da solo, e soprattutto non c’era mio cugino, bensì Burattini! Lui mi aiuta moltissimo nella stesura del linguaggio specifico, mi insegna e mi spiega la grammatica zagoriana, risolvendo i miei problemi di forma mentale legata a strutture “moderne”, che si avvertivano soprattutto nella composizione delle frasi.

Qualcuno sostiene che il mestiere dello sceneggiatore si possa imparare ma non insegnare. Cosa rispondi, tu che hai scritto un manuale sull'argomento e da anni sei in forza alla Scuola del fumetto di Milano come insegnante di scrittura per i fumetti?
La creatività non si può insegnare, ma è possibile suggerire un modo per esprimerla. Ai ragazzi dico spesso che frequentare il mio corso è come andare a scuola guida: io posso spiegare il codice della strada, dei rudimenti di meccanica e come parcheggiare senza salire sul marciapiede, ma la voglia di guidare, la prontezza di riflessi e soprattutto la macchina, sono cose di loro competenza. L’errore è credere che un corso di scrittura creativa possa insegnare a farsi venire in mente delle storie. Non è così. Il fine è (secondo me) capire come raccontare un’idea che si deve avere già in mente, scoprendo come gestirla, come portarla a termine.

Su cosa sono basate e tue lezioni?
Sugli stimoli e la tecnica. Cerco in qualche modo di aiutare a controllare il proprio istinto narrativo. Perché non si può basare un lavoro unicamente sull’istinto. Il muratore, mentre tira su un muro, sa esattamente che cosa sta facendo, come deve iniziare e come deve finire, sa quali problemi può incontrare e come risolverli, non si mette a costruire un muro in base a come si alza la mattina, andando per tentativi. La scrittura creativa merita lo stesso impegno, la stessa preparazione specifica.
Ora qualcuno dirà che non serve solo la tecnica, è necessario il cuore e il talento.
Esatto.
È per questo motivo che alcuni muri sono meglio di altri, è qui che vengono fuori il talento e le proprie capacità individuali. È il motivo per cui un determinato muratore è preferito rispetto ad un altro, o perché un muro è solido e l’altro no…

Un luogo comune vuole che i fumetti erotici (o pornografici, scegli tu) non abbiano bisogno di essere scritti, basta disegnare un certo quantitativo di corpi nudi più perversioni varie ed eventuali. Con le storie di Godiman per Le Ore pensi di aver in qualche modo dimostrato il contrario? Come? Perché?
Godiman partiva proprio dal presupposto che i “porni a due strisce” tanto non li legge nessuno, editore e redattori compresi. Sfruttai in modo subdolo quel concetto redazionale secondo cui la sceneggiatura in quei casi non serve, è inutile, basta che ci sia una concatenazione visiva di eventi (e, spesso, nemmeno quella). Sapevo di lavorare in una sorta di limbo, dove nessuno avrebbe controllato ciò che scrivevo, dove forse avrebbero letto l’albo completo una volta uscito in edicola. Dico forse, perché la genesi di Godiman è davvero incredibile. Il primo numero uscì con il nome di Orgasman, scritto e ideato da un tizio di cui non ricordo il nome. Il primo numero andò in edicola mentre stavano ultimando il secondo. Dopo un po’ arrivò alla redazione una raccomandata di un altro editore; le prove contenute dimostravano che la stessa identica serie, lo sceneggiatore originale l’aveva già venduta anni prima a un’altra casa editrice, quindi quel numero uno era praticamente già stato editato. La serie venne fermata, ma avevano già fatto disegnare tutto il numero due, di conseguenza serviva uno che – partendo da disegni già fatti – rielaborasse il tutto ricostruendo una storia nuova e inedita.

Diego Cajelli.
Eccomi. Pienamente conscio del fatto che il mio lavoro aveva un’importanza pari a zero, ho fatto esattamente il contrario di ciò che si fa in questi casi. Non ho tirato via, non ho detto: “macchisenefrega, scriviamo scemate”, ho preso in mano il personaggio e l’ho trattato seguendo una logica precisa di cortocircuitazione della struttura narrativa, creando un folle contesto di presa di coscienza della demenzialità e dei limiti del “pornazzo da caserma”, dove il basso, la violenza, l’estrema volgarità sono delle scelte precise e non delle note di colore, una linea distante dal “mettiamo assieme un po’ di tavole e facciamoci pagare”. Il tutto in relazione in strettissimo legame metatestuale con il mezzo che stavo usando. La mia idea era quella di fare con “il due strisce” cose che nessuno si aspetterebbe in una produzione simile. Riletto oggi, Godiman ha l’aria di essere un grande fumetto situazionista.

Citazioni coltissime e volgarità gratuite, livelli infimi e poesia…
È il mio lavoro migliore, solo di Godiman parlo in questi termini, di solito sono ipercritico con le mie cose, ma in questo caso tesso lodi sperticate, facendo anche l’antipatica figura del borioso, ma vi prego, concedetemelo! Dopo i primi due numeri, dove ho mescolato le tavole e riscritto i balloon, sono andato avanti, scrivendone altri tre assolutamente inediti. Godiman è stato l’unico “porno a due strisce” di quel periodo a ricevere posta, un lettore ha capito il senso post moderno/situazionista e la serie gli piaceva da impazzire. Roy Klang, il disegnatore di Godiman, oggi è diventato una superstar del mondo dell’illustrazione Gay. Ogni tanto ci sentiamo, ricordando i bei vecchi tempi in cui raccontavamo le storie di un personaggio in grado di dire: “Tieni, è bello e pesante come il Castello di Kafka”. Vorrei tanto che qualcuno lo ristampasse! (…)

Da Video inferno a Lele, Sabry e Tobia, tanto per citare due estremi della tua produzione, due lavori destinati a target completamente differenti. Quando scrivi pensi a te stesso o al tipo di lettore a cui quelle storie si rivolgono?
Il lettore è al centro della mia attenzione, il mio compito è quello di intrattenerlo, di raccontargli una storia, cercando di stupirlo e di farlo divertire. Poi, è chiaro, alcune cose mi vengono un po’ meglio di altre, alcuni generi li preferisco ad altri, e il passare attraverso i generi, da un target all’altro, mi aiuta a migliorare la mia scrittura, a capire cose nuove di questo lavoro. Lele, Sabry e Tobia viene pubblicato su una rivista per abbonati che tira 30.000 copie di media, le pagine della posta sono zeppe di disegni fatti con i Carioca dei nostri personaggi; io e Bertelè – tramite quei disegni – capiamo quanto affetto ci sia per il nostro lavoro. Quando scrivo penso a quei disegni e al bambino che leggerà il suo giornalino. Ogni tanto ci concediamo degli esperimenti, scoprendo che i bambini sono sveglissimi e attenti, disposti a impegnarsi nella lettura.

Un esempio?
Una volta abbiamo spedito i protagonisti nella closure tra una vignetta e l’altra in cerca dell’intelligenza, un’altra volta sono finiti in un mondo parallelo dominato dai greci e abbiamo spiegato le teorie quantiche del multiverso. Penso sempre al lettore, ma in termini di stimolo, di novità, cercando di raccontargli qualcosa di nuovo; cambiando il target, cambio la struttura, il linguaggio o la dose di impegno. Poi, chiaramente, tra me e il lettore c’è un qualcosa di mezzo, la casa editrice, la testata, le logiche redazionali… A volte ci sono dei problemi, è normale che ci siano, e per risolverli mi vengono in aiuto Carrie Bradshow, la protagonista di Sex & the city, e una sua battuta quando viene assunta da Vogue: "Bisogna solo mettere un po’ di Carrie Bradshow in un articolo per Vogue, e non viceversa." Una morale che può aiutarti tantissimo, se scrivi per lavoro.

Capitan Italia, Il massacratore, Examen, Simbolo: più volte ti sei trovato a scrivere di super eroi. Cosa ne pensi degli eroi con costume e superpoteri? Ti piacerebbe infilare nel tuo ricco carnet anche storie di qualche icona statunitense? Se sì, quale? E se ti venisse data totale libertà, dove porteresti il personaggio?
Amo i super eroi. Sono un veicolo per raccontare l’universo umano, sono lo specchio del Luna Park, l’essenza dell’individuo/individui filtrata e rielaborata dalla visione iconica adattabile dell’uomo in costume. Dietro la maschera, dentro il costume ci siamo noi, tutti noi, nessuno escluso. Mi piacerebbe avere la possibilità di sviluppare un concetto su cui sto riflettendo da un po’: un supereroe in quanto tale, scardina la linea cartesiana della definizione classica di uomo. La forza non è nel superpotere, ma nello specifico del “cogito”, se si parte dal “Penso dunque sono” il passaggio logico successivo è “Sono quello che penso”, sono un super eroe perché penso da super eroe, salverei il mondo anche se non sapessi volare e sollevare carri armati a mani nude. Capitan America, Thor, L’Uomo Ragno e Hulk si presterebbero bene ad un lavoro su questo concetto… Chiaramente, raccontando qui quest’idea, l’ho “brevettata”, useremo queste pagine in caso di future controversie legali!

Ora che hai trovato un tuo spazio all’interno di una grossa casa editrice, è da considerare passato l’entusiasmo con cui hai dato vita a importanti iniziative editoriali indipendenti quali la TrogloComics Ltd, la Factory e la rivista Fresco?
No, direi che è esattamente il contrario. Io amo fare fumetti, e questo amore non è andato perduto scrivendo tutti i santi giorni. Ho continuato a scrivere per l’editoria indipendente, e a breve usciranno alcuni lavori molto interessanti. Forse è proprio in questo momento in cui lavoro molto da “dipendente” che posso esprimermi al meglio nel settore “indipendente”. Questa linea io non la vedo come uno sfogo, ma come una possibilità narrativa. Sono due mondi separati con regole diverse, ed è sacrosanto che sia così.

Tu hai scritto molti fumetti per testate non a fumetti, come per esempio Touring Junior, Il Sole 24 ore, Le Ore. Cosa cambia nel tuo approccio alla narrazione qualcosa quando sai che il tuo lettore non sarà necessariamente avvezzo alla lettura di fumetti?
Cambia molto il rapporto con il committente, non con il lettore, se a commissionare un fumetto non è un editore, ma ad esempio un ente, o un'organizzazione istituzionale. Il primo incontro per me è sempre molto divertente, come è accaduto di recente: ho infatti appena concluso un lavoro sul concetto di volontariato per la lega delle cooperative. Loro scoprono che l'universo del fumetto è molto più complesso e ricco di quanto si aspettavano, io scopro che con le parole giuste si può convincere il committente a tentare un qualcosa di più "estremo" rispetto all'idea iniziale che aveva. Per chi non frequenta il nostro ambiente, il fumetto è rimasto fermo agli anni Sessanta, scolastico e immobile; io gli faccio vedere le cose di Alan Moore e Neil Gaiman e a loro si illuminano gli occhi, vedono un piccolo assaggio delle potenzialità del media, della forza comunicativa che possono avere a disposizione. Di solito mi ascoltano, magari tornano a casa con un qualcosa di molto diverso rispetto alle loro aspettative, ma molto più intrigante.

giovedì 8 febbraio 2007

Barzi vs. Enna


VA IN SCENA LA SCRITTURA
Intervista a Bruno Enna
A cura di Davide Barzi

(da Fumo di China n° 106, febbraio 2003)


Non si ha mai abbastanza tempo per leggere tutte le storie contenute in una rivista o tutti i numeri di una serie. Uno dei criteri per selezionarle è guardare chi sono gli autori. Quando nel colophon si legge “Bruno Enna”, per esempio, si può stare sicuri che quella storia avrà uno standard narrativo elevato. Provare per credere. Bruno, la narrazione, ce l’ha nel sangue, ha quel qualcosa in più che nessuna scuola ti insegna. Eppure, fino al 1995, faceva lo scenografo, che nonostante la stessa radice linguistica di “sceneggiatore” è un lavoro lontano mille miglia dalla scrittura.
Hai mosso i primi passi in ambito creativo come scenografo, ma anche illustratore. Com’è che otto anni fa ti sei trasformato magicamente in uno sceneggiatore?
In effetti, ho lavorato alcuni anni come scenografo in una compagnia di teatro per ragazzi (realizzavo graficamente e “manualmente” le mie scene con grande divertimento, ma anche con scarso guadagno) e illustrato libri destinati al medesimo tipo di pubblico. In tutte e due le esperienze lavorative, però, mi è stata posta la stessa identica domanda: “Ma a te, piacciono i fumetti?” Insomma, in quello che facevo si vedeva che avrei voluto fare qualcos’altro. Come la maggior parte dei “fumettari”, anch’io ideavo, sceneggiavo e disegnavo praticamente da sempre le mie storie, per il piacere degli amici e dei familiari. Poi, circa un anno prima del fatidico ’95, successe qualcosa di drammaticamente importante: mi trasferii da Sassari a Milano. La magia, quindi, non c’entra (anche se a quel tempo mi avrebbe fatto comodo, per pagare l’affitto).
Quanto sono importanti nella tua formazione la scuola del fumetto e l’Accademia Disney?
Moltissimo tutt’e due, ma per motivi diversi. Ho frequentato solo un anno (l’ultimo) della scuola del fumetto, ma mi è servito a capire che volevo fare proprio quel mestiere. Lo volevo, con tutto il cuore. Amavo sceneggiare e disegnare e in quel posto si faceva solo questo; meglio di così… L’Accademia Disney, invece, è stata più che importante dal punto di vista professionale. Se alla scuola avevo intuito quello che volevo fare, all’Accademia ho capito che potevo farlo davvero. Ho frequentato il primissimo (quasi sperimentale) corso di scrittura creativa, tenuto da Alessandro Sisti, al termine del quale avevo tra le mani tutti i mezzi per potermi esprimere al meglio. Il problema, a quel punto, era convincere la redazione del Topo che quei mezzi li sapevo usare. A tutt’oggi, dopo circa otto anni di lavoro incessante e stimolante, continuo a provarci disperatamente. È di certo una frase fatta, ma è comunque vero che non si finisce mai d’imparare, come è altrettanto vero che s’impara lavorando. Nel corso della mia breve carriera ho avuto la fortuna di lavorare al fianco di professionisti affermati (soprattutto in ambiente Disney) e di continuare così un mio personalissimo “corso di studi”. Oggi, da buon sceneggiatore, continuo a “rubacchiare” un po’ di mestiere a chi è più scafato e bravo di me.

Parliamo della genesi del progetto Paperino Paperotto, che tra le altre cose ha messo in luce le doti di Alessandro Barbucci prima che diventasse una star internazionale.
Immagina tre giovani sceneggiatori in una stanza (io, Paola Mulazzi e Diego Fasano). Sembra l’inizio di una barzelletta, no? Invece, è l’inizio del Paperotto e di una buona amicizia nata proprio all’Accademia. L’idea di far tornare Paperino indietro nel tempo, nel periodo in cui pascolava allegramente per l’immacolata campagna di Nonna Papera, si fuse con quella di ritrovare il pensiero infantile del Calvin di Watterson. I riferimenti letterari (Tom Sawyer oppure La via del tabacco, di Erskine Caldwell, per citarne due) vennero assimilati e poi dimenticati, fino a che non li vedemmo riemergere spontaneamente nell’atmosfera delle storie e nella caratterizzazione dei personaggi. Poi venne Alessandro Barbucci, anch’egli fresco di Accademia, anch’egli esaltato all’idea di inventare un piccolo “mondo nel mondo” (ed era una grossa responsabilità, dato che si parlava del mondo Disney, che è già dato e ha le sue regole). Già dai primi schizzi quel geniaccio aveva capito e interpretato. Coi secondi, poi, era andato ben oltre. La redazione fu entusiasta del risultato e lo è ancora adesso. Oggi, dati alla mano, il personaggio è senz’altro uno dei più amati dai piccoli lettori di Topolino.

Più facile ricreare il background a personaggi già famosi (X-Mickey, MM, PK, Paperino Paperotto) oppure ideare ex novo una serie dalla fondamenta (W.I.T.C.H.)?
Viene quasi spontaneo pensare che la seconda attività creativa da te citata sia più appagante della prima. In realtà credo che la creazione ex novo di una serie destinata a un mensile ad alta divulgazione (nel quale, quindi, è pacifico che prima o poi qualcun altro oltre te metterà le mani) sottenda ad un complesso e articolato procedimento capace di coinvolgere non solo i primi due “creativi” in senso stretto (disegnatore e sceneggiatore, che magari discutono la cosa ogni sera per un anno davanti a una birra, terminando le serate a cazzotti), ma di mettere in gioco ben altri fattori molto meno inebrianti (precise esigenze editoriali, scelte redazionali, indagini di mercato, target di riferimento ecc…). Questo processo sfocia allora nella creazione, volontaria e non, di alcune “regole” ben precise. Regole sulla tipologia delle storie. Regole sul comportamento dei personaggi. Regole sulla strutturazione delle tavole. Regole sui dialoghi. Regole che gli stessi creatori dovranno rigidamente rispettare perché, una volta pubblicato, un fumetto non appartiene più a due sognatori ubriaconi, ma è di tutti. I procedimenti creativi messi in atto per generare una nuova serie, oppure per ridare “linfa” al background di un personaggio già esistente, quindi, sono a mio parere molto simili e si basano comunque sul rispetto delle regole. Io sono convinto che questo mestiere diventi davvero “facile” solo nel momento in cui queste regole vengono assorbite e poi dimenticate. In questo modo ogni autore (non necessariamente il creatore della serie) riesce sempre a dare un contributo importante e originale.

Tu collabori anche con la Divisione Libri Disney. Quali sono le differenze tra le due modalità di scrittura e gli errori da evitare nel passaggio tra le due?
Un errore da evitare? Considerare il pubblico un’unica massa, che legge tutto. Chi acquista i fumetti Disney non sempre compra anche i libri e viceversa. Molti libri Disney precedono e seguono i film, rivolgendosi quindi ad un pubblico molto ampio e variegato, ed il “target” di riferimento si livella in base alla tematica della pellicola. In verità, le modalità di scrittura sono talmente differenti che è quasi impossibile parlare di “passaggio” fra le due. L’unica cosa che accomuna il fumetto al libro Disney è l’attenzione per le “regole” della casa madre, che bisogna sempre tenere d’occhio. Per il resto, la mia collaborazione ai libri si risolve in: traduzione del testo americano relativo al film in arrivo, scelta delle immagini da inserire (in America gli albi hanno molte più illustrazioni), rielaborazione e riscrittura. Ovviamente è nella terza fase che mi diverto di più, ma è altrettanto ovvio che questa pratica non fa di me un vero scrittore. Al contrario, nel fumetto riesco a esprimermi al meglio.

W.I.T.C.H., PK, X-Mickey: qual è il più divertente da scrivere e perché?
Non dico banalità quando rispondo che tutti e tre sono parimenti divertenti. Il motivo, invece, sì che è banale: sono molto diversi. W.I.T.C.H. ha un’attenzione particolare per l’universo femminile e il tono della narrazione è sereno e vivace allo stesso tempo, a tratti sentimentale, a tratti comico. Le storie hanno un respiro abbastanza ampio. Mi piace moltissimo studiare i dialoghi, ma ancora di più adoro scavare nelle personalità delle singole protagoniste, che scopro in continua mutazione mentale. Will, Hay Lin, Irma, Taranee e Cornelia sono diverse e, soprattutto, non sono ancora caratterialmente definite: lentamente, ma inesorabilmente, stanno crescendo. Mi piace pensare che ogni episodio di W.I.T.C.H. si scriva da sé.
PK è molto diverso perché, anche se è mutato spesso nel corso degli anni, il suo cambiamento è stato dettato da fattori esterni alla storia e al personaggio in sé. Con PK (prima, seconda e terza serie) sono riuscito a ritagliarmi un piccolo spazio “mentale”, nel senso che, quando affronto la stesura della sceneggiatura, cerco di tirare fuori un lato nascosto della mia personalità: quello un po’ “dark”, se vogliamo usare un termine sorpassato. La composizione dell’episodio, infatti, è per certi versi più intuitiva. Certo, dietro c’è un’idea, un soggetto dettagliato, una documentazione e uno studio ben preciso, ma quando comincio a sceneggiare metto da parte la tecnica e cerco di far emergere le sensazioni. A volte ci riesco e altre volte no.
X-Mickey, infine, è la testata che mi permette di “scantonare” di più, nel senso che cerco di divertire e di divertirmi, usando un linguaggio più semplice e diretto possibile, ma anche elaborando invenzioni al limite dell’assurdo che negli altri due fumetti non sono concepibili, soprattutto perché si rivolgono a tutt’altra fascia d’età. Il bello di X-Mickey è che le regole della serie sono ancora tutte da scrivere, anche se i “paletti” (che io considero comunque sinceramente stimolanti) sono più o meno gli stessi con i quali bisogna fare i conti scrivendo una qualsiasi storia di Topolino.
Se quindi per divertimento s’intende l’opportunità di esprimere diversi stati d’animo, allora posso affermare che mi sto divertendo un sacco. Che fortuna, eh?
Torniamo a W.I.T.C.H., per ora il più importante progetto disneyano/non disneyano su cui hai lavorato. È diverso il modo di affrontare una storia con topi e paperi da quello con cui ti poni di fronte a personaggi più vicini alla realtà quotidiana, anche se mediata dalla magia?
Il mondo di W.I.T.C.H. viaggia in parallelo al nostro, si specchia in esso e riflette a sua volta un’immagine intensa e positiva. Le storie, supervisionate da Francesco Artibani, usano la magia come pretesto per sondare i rapporti umani. Ecco perché, quando affronto una storia di W.I.T.C.H., non lo faccio mai a cuor leggero. Tempo fa ho avuto un’infuocata discussione con alcune “mamme”. Le chiocce pensavano che la magia potesse dare l’impressione alle loro figliole di risolvere tutti problemi della vita. Ovviamente, non avevano mai letto W.I.T.C.H., ma questo per loro era un dettaglio trascurabile. Dovettero ricredersi aprendo uno qualsiasi degli albi pubblicati. In ogni storia i rapporti coi genitori hanno un’importanza fondamentale e i conflitti (a parte quelli coi mostri di turno) non vengono MAI risolti con la magia. Anche affrontando una nuova storia di Topi e Paperi non prendo la cosa alla leggera, ma per un altro motivo. Le storie Disney non si limitano a imitare la nostra realtà, ma ne fanno decisamente parte. Ci sono molti lettori che affermano di aver “imparato a leggere” sulle tavole di Topolino. Ogni volta che scrivo per il Topo so che quella storia verrà letta da migliaia di persone in migliaia di situazioni diverse. Io, in qualche modo, ho partecipato a un pezzetto della loro realtà quotidiana. Se non è importante questo…
La storia che scrivi deve divertirti o il tuo primo pensiero è quello di centrare gusti e interessi del tuo target di riferimento?
Io e il mio target di riferimento siamo arrivati a un accordo: io non penso ai suoi insondabili umori e lui mi paga regolarmente lo stipendio.
Qual è il target con cui ti senti più naturalmente in sintonia e per il quale scrivi più facilmente?
Quando scrivo per il Topo o per X-Mickey so che il target è “trasversale” e che quindi devo rivolgermi sia ai bambini (sei, dieci anni) sia agli adulti (trenta, quaranta, persino cinquanta o sessant’anni). Mi ritrovo a studiare delle storie e ad elaborare delle battute sperando che vengano capite e apprezzate da tutti. Nel momento in cui, invece, scrivo per un target diverso (quattordici, vent’anni o giù di lì) so di preciso che la mia storia verrà presa in esame da un tipo di pubblico selezionato e particolarmente esigente. Riuscire ad accontentare tutti è una vera sfida e, se ci penso troppo, allora non sempre mi sento in grado di affrontarla. Insomma, credo sia meglio non ragionare troppo in termini di target e scrivere di getto. Il resto, di solito, viene da sé.

Scrivi una storia, una serie, un personaggio per volta o procedi parallelamente con diverse sceneggiature?
Attualmente, la seconda che hai detto. Spesso, scrivendo per W.I.T.C.H. o PK, devo consegnare tavole settimanalmente e garantire una copertura ai diversi disegnatori impegnati nelle storie. Mi ritrovo così a lavorare parallelamente a più sceneggiature. Raramente lavoro ad una storia alla volta e, quando capita, comincio a preoccuparmi.

Dramma, azione, commedia... c'è un "genere" che senti più nelle tue corde?
Credo di amare molto il dramma, ma so anche che la commedia è potente e difficile, per questo cerco di affrontarla giornalmente. Non sono un uomo d’azione.

Sviluppare nuovi progetti, in ambito disneyano, è ormai importante quanto scrivere sceneggiature per i “vecchi”. Quale dei due ruoli trovi più gratificante?
Mi gratifica pensare di essere chiamato in causa sia nei nuovi sia nei vecchi progetti. Questo vuol dire che non sono troppo giovane per i vecchi e neppure troppo vecchio per i nuovi. Voglio restare trentenne in eterno, col cuoio capelluto possibilmente intatto.

Da dove ti arrivano gli spunti migliori? Film, fiction, altri fumetti, letteratura, figli… (Roddy Doyle, per esempio, ha creato il divertentissimo “Il trattamento Ridarelli” per avere una buona storia da raccontare ai propri bambini)
Gli spunti migliori arrivano da tutto e vanno a periodi. Un periodo, mi bastava assentare lo sguardo su MTV per far circolare le idee e acchiapparne una ogni tanto. C’è stato anche il periodo dei libri, quelli tosti, grossi e senza illustrazioni. Poi i film, quelli poco colti e molto commerciali e, infine, sono arrivati anche i figli. Al contrario del buon vecchio Roddy, io ho un figlio di tre anni e mezzo che preferisce saltarmi sulla testa piuttosto che ascoltare una buona storia. Ho anche una bambina di pochi giorni che mi guarda e rigurgita. Per adesso m’ispira sospiri, derivati da un sonno perennemente arretrato.

Fumetti preferiti? Colleghi preferiti?
Non leggo troppi fumetti, lo ammetto. Non sono un fan delle ultime generazioni supereroistiche e sbircio pochissimi fumetti giapponesi (Nausicaa di Miyazaky a parte, che continuo a rileggere). Adoro Asterix, Calvin e Hobbes, Rat-Man, Linus, Tin Tin, Dylan Dog, Julia, Gea. Mi piace tutto ciò che è Disney, soprattutto quand’è datato. Tra le letture recenti che mi hanno esaltato ci sono “V for Vendetta” di Alan Moore e David Lloyd, “La Storia del Topo Cattivo” di Bryan Talbot e “David Boring” di Daniel Clowes. Per quanto riguarda i colleghi preferiti, sorvolo per ovvi motivi su tutti quelli che conosco (te compreso! Eh, eh!), ma cito almeno alcuni “non Disney” che seguo con interesse: Vanna Vinci, Luigi Simeoni, Leo Ortolani solo per fare tre nomi. E poi i “grandi classici” come Giancarlo Berardi, Ivo Milazzo, Vittorio Giardino e chi più ne ha più ne metta. In ogni caso, guardo soprattutto agli autori italiani.

Progetti per il futuro, magari non esclusivamente disneyano?
La carne al fuoco è tanta, ma in questa fase è prematuro parlarne nel dettaglio. Ci sono alcuni progetti fumettistici ancora in fase di discussione, studiati per il mercato francese. Sto realizzando delle sceneggiature per una serie televisiva a cartoni animati, che dovrebbe esordire la prossima stagione. Sono in contatto con il bravo vignettista e umorista Lele Corvi per una striscia, che chissà se vedrà mai la luce. C’è poi un’idea ricorrente, una piccola fissazione: è il desiderio di scrivere una storia “adulta”, che ha uno sviluppo molto drammatico ed un titolo solo apparentemente semplice (Tre Silenzi), ma non ha ancora un disegnatore. Il fatto strano è che non mi preoccupa neppure l’editore: la voglio fare e basta. Quando ci riuscirò, mi sentirò meglio.
A proposito di Lele Corvi, la sua serie “in progress” Buddy Misfire è un divertente esperimento di fumetto in rete. Anche la disney è molto attenta a questo aspetto, se non altro dal punto di vista promozionale (con brevi storie create apposta per la fruizione multimediale). Cosa pensi dei comics sul web?
Penso che, nel caso di Lele e di pochi altri, il fumetto on-line funzioni benissimo. Lui sa che internet è un mezzo efficace, ma labile. Essendo un vignettista è conscio del fatto che lo spazio a sua disposizione per far sorridere è limitato da fattori temporali. Non c’è tempo per riflettere: bisogna agire. Internet è allora un ottimo mezzo per “colpire” e poi scappare. In tutti gli altri casi, però (cioè in quelli in cui c’è chi pretende di pubblicare storie da centoventi tavole con contenuti seriosi e pesanti), penso che il mezzo non possa ancora surclassare la carta. Non è un problema di collezionabilità o di tecnologia, ma di naso. Per me, il fumetto è ancora qualcosa che profuma di carta.

giovedì 1 febbraio 2007

Gorla vs. Barzi & Oskar

UMORISMO BAROCCO
a cura di Stefano Gorla
Oskar e Barzi, un duo "senza nome"
(da Fumo di China n° 90, maggio 2001)

Un duo solido, Davide Barzi e Oskar sono gli artefici di No Name, goffo ed esuberante personaggio dal pedigree co­mico-grottesco. Li incon­triamo a Milano.
Interno giorno. Scuola del Fumetto. Un pomeriggio d'aprile, tra sgabelli e tavoli da disegno. Oskar, l'uomo sen­za cognome, ha il suo book sotto il braccio, lo sfogliamo. Barzi, che di no­me fa Davide, giocherella con un CD dei Gufi (seminale gruppo milanese degli anni Sessanta). Iniziamo a parlare, rispondono all'u­nisono o in perfet­to sincrono: quando uno tace l'altro parla.


Siamo nel luogo del vostro primo incontro?
Sì, ci siamo cono­sciuti alla Scuola del Fumetto. Da quell'e­sperienza è nato anche un volumetto che contene­va un fumetto umori­stico, I Vagamondi, una se­rie creata per un'i­potetica rivista contenitore per bambini. Un progetto simpa­tico e interessante che coinvolgeva al­cune scuole elementari del milanese.

Umorismo nel sangue?
Oskar:
Ho sempre disegnato guar­dando al comico e al grottesco. Ho amato Magnus e il suo Alan Ford, e la sua Compagnia della forca. Ho ama­to a dismisura Bonvi. Sono cresciuto con quelli. Penso di non aver mai fat­to un disegnato realistico in vita mia, liceo a parte, naturalmente. Tendo a fare la testa grande, le facce molto espressive
Barzi: Stessi amori. Su queste cose ci siamo subito ritrovati, per il resto non andiamo d'accordo su niente, tranne forse la sangria.

Preferite ridere, sorridere o sghi­gnazzare?
Barzi a Oskar: Questa è difficile, dilla tu.
Oskar: Nella vita in generale, sorridere.

E nel fumetto?
Sghignazzare, certamente. Ma non so­lo. Per esempio in un episodio di No Name abbiamo inserita una piccola fiaba giocando sulle funzioni di Propp.

Mi sembra che siate affascinati dalla contaminazione dei linguaggi.
Barzi:
Per fare un paragone musicale, io adoro Elio e le Storie Te­se: prendere cultura bassa, cultura alta e cucinare il tutto. Lo trovo molto stimolante. Anche se lo scopri dopo. Senti Elio, senti le loro canzoni, c'è la volgarità, il peto e dici: sono dei creti­ni! Poi ascoltim con attenzione e trovi anche raffinatissime cita­zioni musica­li; ti trovi davanti a musicisti bravissimi e consapevoli. Noi volevamo far la stessa con il fumetto.

E ci siete riusciti?
Mah! Abbiamo ricevuto molti apprez­zamenti, ma anche critiche. Una cri­tica ricorrente è quella che nelle vi­gnette ci sono troppe cose, citazioni e un mare di particolari. Ti devi ferma­re ad ogni vignetta. Ma noi lavoriamo per aggiunta e Jacovitti è stato tra i nostri maestri.

Citazioni ma anche giochi verbali e grafici.
Appunto, citazioni letterarie ma non solo. Ci divertiamo a inserire dettagli disegnati nella vignetta, giocando su diversi piani. Mentre qualcosa succe­de in primo piano, dietro c'è una sor­ta di seconda storia che prosegue per più vignette. Per esempio nel nume­ro zero di No Name, mentre al cimi­tero c'è la scena della risurrezione di No Name, alle sue spalle c'è un tipo che ruba le salme e a un certo punto inizia a ballare con Michael Jackson, che arriva dritto dritto dal video di Th­riller.

Preferite usare diversi piani di lettura che non quello li­neare della vicenda?
Certamente. Così co­me amiamo molto uscire dal seminato. Non stare solo sul fu­metto ma spaziare: fumetto, favola, sonetto. Nel terzo episodio di No Name abbiamo inseri­to un sonetto, come nel primo episo­dio una favola. Ci piace mescolare lin­guaggi, senza compartimenti stagni.

Il vostro modus operandi?
Partiamo da un soggetto in genere le­gato a una situazione paradossale e poi ci lavoriamo insieme a quattro ma­ni, discutendo, provando, divertendo­ci parecchio. Cerchiamo di essere mol­to sinceri l'uno con l'altro, schietti, al­la ricerca della soluzione migliore, nel testo e nel disegno. Con questo siste­ma abbiamo creato No Name. Il nu­mero zero era una storia a sé, otto ta­vole di base che sono diventate venti­quattro. Esiste anche un numero uno mai pubblicato, giocato sulla casualità più totale. 32 pagine dove al messo più roba possibile, senza chiudere il finale. Avevamo pensato a un progetto sviluppato in sei numeri, e continuity americana. Abbiamo iniziato facendo le prime trentadue pagine e poi... quelli di Comics & Dintorni – il nostro primo editore - ci hanno fatto aprire gli occhi dicendo e un fumetto confuso; fa­cendoci riflettere che con un'uscita semestrale o an­nuale c'era la cer­tezza di perdere contatto con il pub­blico. Per cui quel numero è rimasto nel cassetto. E siamo ripartiti pen­sando a episodi autoconclusivi, se­guendo una metodica classica.

Come è nata l'idea di No Name?
Barzi:
Era un personaggio assoluta­mente secondario. Nel numero zero infatti muore, quasi subito, doveva es­sere una sorta di comparsa.
Oskar: Nella sceneggiatura c'era scrit­to: "supereroe giapponese di poca im­portanza: tanto muore subito!". E io l'ho fatto un po' sfigato: obeso, senza nessun potere, costumino troppo cor­to, pantaloni alla Obelix. È un eroe stupido con slanci cinici solo quando è spinto dal bisogno. È uscito di prepotenza.

Altri personaggi?
Ne abbiamo un cassetto pieno. Abbia­mo avuto un periodo di iperproduzione. Facendo fallire molta editoria minore italiana (ridono!). Noi propo­nevamo un fumetto e le testate mori­vano, anche se per cause non riconducibili a noi. Resta il fatto.

Portate sfìga?
Non dirlo, se no la gente ci crede. Cer­to è che dopo l'avventura di Prato al premio Pierlambicchi, l'abbiamo pro­posto No Name al gruppo de L'Isola che non c'è (edizioni Comica), a cui piaceva, ma avendo la rivista un'im­postazione più da striscia, ci hanno detto: o lo ridisegnate o ci portate al­tro. Abbiamo portato altro. Una striscia dal titolo Rynghio & Raskio, due alie­ni che vogliono conquistare il mondo da soli. Uno più scaltro e l'altro un po' fesso, classica coppia; il valore aggiunto sta nel fatto che sono alieni. La cosa è piaciuta ed eravamo pronti per la pub­blicazione: addirittura, su Mega (rivi­sta di anteprime), apparve una striscia accompagnata dalla scritta "la nuova serie sarà presente sul numero 12 del­la rivista". Sotto, aggiunto di fretta e furia, un teschietto e la scritta: "la te­stata chiude con il numero 11". Un'altra storiella frustrante è lega­ta alle vicende della redazione milanese di Cuore, seconda ma­niera. A loro proponiamo BB, storia di una bambina bastar­da, una striscia dove la realtà è vi­sta con gli occhi e con la cattive­ria tipica dei bambini. Nel frat­tempo si è consumato uno scon­tro tra la redazione milanese e quel­la romana. Ha vinto la romana.

Un'anticipazione, senza far chiu­dere un'altra testata?
Pare che si venda bene il fu­metto erotico e allora ab­biamo fatto una storia eroti­ca, breve, 8 tavole. Oskar è abbastanza bravo nel disegno dei corpi femminili e questo non guasta certo.

Erotico-umoristico?
Certamente, non riusciamo a far a me­no dell'umorismo. Infatti il personag­gio principale di questa breve storia è una divinità millenaria a forma falli­ca. Divinità che dona fortuna alla don­na che lo porta con sé, ma questo a patto che non lo faccia mai "crollare", perché nel momento in cui non arri­va più ossigeno al cervello (??!) la di­vinità muore e non porta più fortuna.

Rapporto con il pubblico?
Molto positivo. Ci siamo accorti che c'è un buon feeling; non abbiamo mi­gliaia di lettori ma difficilmente chi compra un numero poi ci abbandona. Addirittura i nostri lettori comprano più copie di un episodio, un po' perché abbiamo iniziato il gioco della coper­tina diversa nel primo episodio, un po' perché alle fiere a chi acquista un nu­mero diamo sempre un disegno ori­ginale. C'è chi ha più copie dello stes­so episodio.

Beh, ne avete fatti due...
C'è anche lo zero. Comunque la gen­te ritorna, parla. Ci mandano mail, qualcuno addirittura ha scritto per po­sta e i commenti sono quasi tutti po­sitivi. Le critiche sono però abbastan­za radicali: è illeggibile.

No Name ha partecipato alle elezioni del fumetto italiano del 13 gennaio 2001?
E ha preso voti, non pochi tutto som­mato. Anche perché a Lucca abbiamo fatto una campagna spietata. Il volan­tino aveva testi incisivi: "mettici una croce sopra"; "nel segno della conti­nuità: vota un cadavere"; "un impe­gno concreto: scendo in un cam­po...santo" e noi lo spacciavamo nei pressi dei seggi. E allo stand regalavamo sangria a chi ci prometteva di andare a votare per No Name. Vero clientelismo.

Impegnati a tempo pieno nella pro­mozione.
Mostre, presentazioni, partecipazione alle fiere del fumetto, presenza nelle fumetterie, No Name News via posta elettronica. Addi­rittura abbiamo presentato No Name al cinema di Rozzano, ridente paese dell'hinterland mi­lanese. Una serata interessante do­ve si è messo insieme degusta­zione, fumetto e cinema. Generi e linguaggi. Abbiamo presenta­to il fumetto e un film (Denti di Salvatores) in un clima va­gamente surreale. Certo, oltre al­l'impegno c'è chi crede in noi, co­me Gianni Bono dell'Epierre che ci pubblica, e Bono non scher­za sulla qualità. Poi c'è una grande donna alle nostre spal­le, Graziella Calatroni, redattrice e factotum dell'E­pierre. Fra le prime fan di No Name che ci ha aiu­tato, e aiuta, in mille mo­di: controlla bozze, lettering, disegni, manda in giro le coi prepara le cartelle stampa. Se non ci fosse bisognerebbe inventarla.

In No Name è più importante la battuta o l'atmosfera?
L'atmosfera. Tutto nasce da una situazione particolare e in quel contesto nasce il gioco delle battute. Da battuta diretta al particolare del disegno che fa ridere (ci prova almen0) L'idea è quella di mettere i personaggi in situazioni assurde: nel numero tre, per esempio, ci sono gli Elfi, le fate, un mondo incantato inserito in contesto gangster. Gli Elfi sono gangster e le fate sono prostitute. Per darci un tono chiamiamo No Name un fumetto di generi, cosa e spiazza un po' i lettori. Non ci siamo inseriti in un filone: il primo nume era guardava all'horror, poi il western, la gangster story e infine la fantascienza. Lega tutto il personaggio, senza peso nonostante il peso. Un personaggio stupidamente intelligente e intelligentemente stupido.

Sulla frase storica scende il silenzio. I tre si guardano negli occhi. E ridono.